venerdì 13 agosto 2010

Giugissu Zeneize (Maledizione del Metodo Bianchi)

Una "doppietta" (ovvero la tecnica 12A se non ricordo male) - una sorta di doppio calcio volante che è una delle principali tecniche "volanti" del Metodo Bianchi. La tecnica appare più mutuata dal catch che da qualsivoglia stile di jujutsu giapponese, in cui non esistono tecniche simili. Notare i dogi con la "Saetta Rossa" (foto da Google).

Da bambino fino agli ultimi anni del liceo ho praticato il cosiddetto "ju-jitsu Metodo Bianchi", sotto la guida del Maestro Pagano presso la società Saetta Rossa a Nervi (non cercatela - non esiste più da molto tempo). Mi divertii molto per i primi anni, sebbene tornassi spesso a casa con qualche livido o escoriazione, il che, ovviamente, preoccupava mia madre. Poi finii per annoiarmi: conoscevo i "settori" a menadito ma nonostante l'impegno non progredivo di una virgola - e man mano che proseguivo nello studio delle arti marziali, i limiti del "Metodo Bianchi" mi apparivano sempre più evidenti - e gli errori di impostazione grossolani.
Ma andiamo per ordine. Per "Metodo Bianchi" si intende un metodo di insegnamento del ju-jitsu che ebbe una vastissima diffusione in Italia (e in special modo in Liguria) e che si rifà agli insegnamenti del Maestro Gino Bianchi, riordinati poi dal Maestro Rinaldo Orlandi (di fatto, il suo vecchio libro "Jujitsu Moderno" è stato a lungo considerato la Bibbia del Metodo Bianchi).
Il Maestro Bianchi, marinaio genovese, imparò le arti marziali nipponiche durante un viaggio in estremo oriente (mi risulta a Tianjin, ai tempi una sorta di porto franco vicino a Pechino - città che peraltro ho visitato per lavoro). Più esattamente "imparò qualcosa" delle arti marziali orientali (che certamente non si imparano nel tempo di qualche anno). Curioso il fatto che il jujutsu sia nipponico e Tianjin sia in Cina - ma il fatto non stupisce più di tanto, considerata la presenza nipponica nel Catai dei tempi. Questo "qualcosa" fu poi, a mio giudizio (ma anche secondo quello di alcuni allievi diretti con cui parlai da ragazzino), mescolato con elementi di lotta libera, judo, catch e savate (che a Genova era piuttosto diffuso).
Ne venne fuori un groviglio di numerose tecniche - talvolta più o meno simili a quelle nipponiche, talaltra meri esercizi da saltimbanchi - e in qualche caso vere e proprie assurdità marziali. Queste vennero ordinate e raggruppate nei cosiddetti "settori": cinque gruppi di tecniche (identificate da una lettera) costituite da venti tecniche ciascuna, generalmente in ordine crescente di difficoltà.
Per esempio, il 16A (ovvero sedicesima tecnica di "prevalentemente basata su sbilanciamento") corrispondeva grossomodo ad un Kotegaeshi. L'1B (prima tecnica di "sollevamento") era una sorta di Seoinage/kataotoshi. E ho citato due esempi riconducibili a tecniche giapponesi. Altri, come il 12A della foto, col jujutsu propriamente detto non hanno nulla a che fare.
Oltre alla pratica dei settori (praticamente i kata) il metodo consisteva anche in:
  • Agonistica - una peculiare forma di randori, in cui non si applicavano molte delle limitazioni del judo (ma era comunque proibito colpire) il cui scopo era quello di proiettare a terra l'avversario e poi immobilizzarlo (o costringerlo alla resa per leva articolare o strangolamento). Curiosamente, a differenza del judo, la presa iniziale veniva imposta (una mano al bavero e una al gomito). Nell'allenamento la parte "in piedi" e "a terra" venivano spesso tenute separate. Non essendo supportata da un valido bagaglio tecnico la parte in piedi era piuttosto statica e povera. La parte da terra, priva di alcune delle limitazioni del judo, e forte dell'entusiasmo agonistico, era forse una delle poche cose da salvare del metodo. Credo che ancora oggi si organizzino gare di questa bizzarra specialità tipicamente italiana - anche se il successo del "fighting system" ne sta decretando la sparizione.
  • Accademia - un'altra bizzarria italiana. Due atleti, di concerto, si alternano nei ruoli di Tori e Uke e effettuano una serie di tecniche, spesse volte rapidissime a acrobatiche. Nelle competizioni c'è un limite di tempo. Dato che il punteggio dipende anche dal numero di tecniche e dalla loro spettacolarità, queste sono rapidissime e spesse volte "volanti" (ovvero Tori si stacca da terra durante l'esecuzione). E' una disciplina che richiede un buon atletismo, doti acrobatiche e un discreto impegno. Ma, con gli occhi del bujutsu giapponese, è poco più che un esercizio da saltimbanchi - le cui tecniche sono spesse volte impossibili da realizzare nella realtà - o completamente folli. Anche questa specialità, incredibile dictu, sopravvive ancora oggi.
  • Autodifesa - Con questo termine generico si intendevano tutti gli esercizi Tori-Uke che non ricadevano nei settori. Esistevano anche delle gare, ma senza regolamenti chiari, che al giorno d'oggi sono conferite nel "Duo Games" disciplina che ha un certo successo anche internazionale.
Oltre a questi metodi di allenamento, vi erano sporadici inserti di karate (di bassissimo livello) di aikido (idem) e saltuari esercizi estemporanei come il "bakedo" (coi bastoni - in giapponese non significa nulla...ma secondo alcuni si trattava di "Baccheè do", ovvero il genovese per "dispenso bastonate...). Con gli occhi di oggi, mi sembra tutto assurdo.
Se non si è capito, disapprovo il metodo Bianchi praticamente in ogni sua parte. E' quasi tutto da buttare: dai fondamentali (le tecniche di parata ridicole, gli spostamenti assurdi, le cadute "simmetriche" etc.) alle tecniche vere e proprie (basti vedere il seoinage come eseguito nel metodo Bianchi e come viene invece eseguito nelle tecniche giapponesi per accorgersi dell'abissale differenza). Le cose da salvare? Forse la lotta a terra (se non altro nella palestra che frequentavo) e poco altro.
Intendiamoci: sono grato al metodo Bianchi, ai Maestri Bianchi, Orlandi e Pagano perchè grazie a loro e al loro lavoro mi sono appassionato alle arti marziali. E senza di loro, in Italia, il jujitsu non avrebbe avuto la diffusione che ha attualmente. Rimane il fatto che il metodo Bianchi (come del resto altri metodi similari fioriti in giro per il mondo) non ha nulla a che vedere col jujutsu giapponese. Ed è anzi una pratica perniciosa per chi vuole apprendere le arti marziali, giacchè molti dei suoi principi, pur sotto una apparente scientificità, sono sbagliati.
In parole povere, se praticate il metodo Bianchi vi invito ad informarvi, anche solo cercando su youtube, sulle tecniche del jujutsu nipponico. Una analisi oggettiva e sincera dovrebbe dirvi molte cose. Se invece pensate di avvicinarvi al jujutsu, o avete un figlio/nipote/parente che lo vorrebbe imparare, informatevi su quale metodo segue la palestra a cui vi rivolgete. Per quanto mi riguarda, sconsiglio caldamente la pratica di tale metodo.

giovedì 8 luglio 2010

Le parole sono importanti (ma non troppo)!

Gli ideogrammi "JU" (cedevole/morbido) e "JUTSU" (tecnica)

Un errore che ho fatto spesso, nello studio delle arti marziali, è quello di dare troppa importanza agli aspetti teorici. Come prodotto di una cultura diversa, vasta e interessante, lo studio delle arti marziali giapponesi offre moltissimi spunti a le persone che, come me, amano leggere e documentarsi. Il che, in se, non è un male. Anzi, forse è un approccio necessario per noi occidentali, abituati ad una cultura del "sapere" piuttosto che del "saper fare". Però non bisogna mai dimenticare che il cuore delle arti marziali è la pratica. La pratica è l'unica cosa che conta, ed è solo attraverso la pratica che si migliora - e non attraverso i libri (o i siti web).
Detto questo, da buon occidentale, penso che valga comunque la pena soffermarsi brevemente sulle parole - se non altro perchè molti termini non sono nella nostra lingua...e una traduzione sbagliata può portare a marchiani errori. Iniziamo dal nome.

Senza zuccheri aggiunti

Attualmente il termine JU-JUTSU (talvolta trascritto come JIU-JITSU, JU-JITSU...e chi più ne ha più ne metta) ha un significato talmente vago e indistinto che è difficile darne una interpretazione corretta e completa, a meno di includere anche scuole e tecniche che col jujutsu non hanno davvero nulla a che fare.
Limitandoci ad una traduzione, JU significa "morbido, cedevole, soffice" mentre "JUTSU" significa "tecnica, arte/scienza (nel senso di saper fare qualcosa)". Quindi Jujutsu suona più o meno come "tecnica cedevole". Quando ero bambino, la traduzione che andava per la maggiore era "Dolce Arte". Piaceva parecchio perchè evocava un senso di creativa non-violenza, che era evidentemente in linea con lo spirito del tempo - dopotutto gli anni sessanta non erano poi così lontani. Per non parlare del mito che "l'avversario veniva sconfitto con la sua stessa forza"... il che è vero solo in parte.
In realtà, come vedremo, il jujutsu era un'arte (se vogliamo usare questo termine) violenta e assai poco creativa.
Rimandando i dettagli tecnici a post futuri, il jujutsu si sviluppò come una delle tecniche del bujutsu (lett."tecniche di guerra") e come tale, almeno nelle versioni più antiche, non vi era rispetto o considerazione alcuna per l'incolumità dell'avversario. Lo scopo era vincere e non contava nient'altro. E' importante ricordarlo.
Gli aspetti spirituali, morali e creativi del jujutsu sono, nei casi migliori, "effetti collaterali" positivi - e pretestuose "invenzioni" moderne in quelli peggiori.


Sane tradizioni (ma troppo violente)

Se vogliamo provare a dare un significato al termine "jujutsu", invece, dobbiamo distinguere ciò il termine indicava in Giappone da quello che indica adesso nel mondo.
In giappone, nei secoli scorsi (e in qualche caso anche ai giorni nostri), il termine "jujutsu" indica le tecniche "disarmate" (o con uso occasionale di armi corte) delle scuole di arti marziali tradizionali ("koryu bujutsu" ovvero tecniche di guerra antiche).
Si trattava quindi di un insieme di tecniche e strategie da adottarsi nel caso in cui il samurai fosse impossibilitato ad utilizzare la spada. Va da se che il jujutsu (chiamato talvolta con altri nomi - come ad esempio tai-jutsu ovvero"tecnica del corpo") era considerata un'arte secondaria rispetto al kenjutsu ("tecnica della spada").
Il rapporto fra kenjutsu e jujutsu tradizionale è molto stretto - al punto che gli scopi, le tecniche e le strategie di movimento sono assai simili. Molte tecniche di jujutsu assumono un pieno significato solo se si immagina che l'avversario possa estrarre una spada. Il che, ovviamente, le rende anacronistiche.
Talvolta si usa il termine koryu jujutsu (jujutsu "antico") per distinguere questo "tipo" di jujutsu (e le scuole o "ryu" che lo praticano) dalle varianti moderne - che spesso hanno poco di giapponese, e ancor meno di tradizionale.
Fra i koryu jujutsu ricordiamo, ad esempio: Kito Ryu, Takenouchi Ryu, Tenshin Shin'yo Ryu,Yoshin Ryu, Daito Ryu (nota:Yoshin Ryu e Daito Ryu, in realtà, sono nomi comuni a numerose scuole - alcune delle quali hanno legami piuttosto labili con le scuole tradizionali).
La mia opione è che una pratica del jujutsu completamente fedele alla tradizione sia anacronistica e poco salutare: non è tempo di guerra e anche se lo fosse la gente non girerebbe con una katana. E' necessario eliminare dalla pratica tutte le tradizioni nocive alla salute e potenzialmente rischiose per l'incolumità dei praticanti. Non siamo nel giappone feudale. Non siamo samurai. Le arti marziali, in ultima analisi, per noi sono un passatempo e nulla più (e sfido chiunque a dimostrarmi il contrario).
Tuttavia, è nel jujutsu tradizionale che troviamo le tecniche più efficaci. L'efficacia della tecnica è necessaria per la pratica corretta delle arti marziali.
Due esempi di tecniche di jujutsu dalla antica scuola Kito Ryu - peraltro si tratta di tecniche che ritroviamo, con minime modifiche anche in molte altre scuole del jujutsu tradizionale (e anche in molte scuole moderne).

Tempi Moderni
Il jujutsu tradizionale era già anacronistico verso la fine del diciannovesimo secolo. In un Giappone che si stava rapidamente occidentalizzando, i giovani non erano particolarlmente attratti dalle arti tradizionali e,di contro, per attirare gli allievi molte scuole proponevano tecniche sempre più spettacolari e sempre meno efficaci. In questo contesto, e in parte per correggere queste tendenze, Jigoro Kano codificò il Kodokan Judo - che, pur attingendo a piene mani dal jujutsu tradizionale, si presentava come un metodo razionale e moderno. Il judo si diffuse in maniera rapida, e il jujutsu ne seguì faticosamente le orme, spesso come insegnamento supplementare riducendosi al lumicino, come disciplina a se stante,già intorno agli anni venti del ventesimo secolo.
Tra le due guerre, tuttavia, il jujutsu riguadagnò progressivamente popolarità in patria -per motivi nazionalistici- e riprese ad essere conosciuto all'estero - a causa degli scambi commerciali e, nel caso di Italia e Germania, anche per le alleanze militari. Nel secondo dopoguerra, anche per l'assenza di un metodo unico e di un caposcuola, iniziarono ad apparire metodi "moderni" di jujutsu, promossi da maestri più o meno qualificati, e talvolta improvvisati. Negli anni Sessanta e Settanta, l'interesse occidentale per le discipline orientali crebbe notevolmente - in un primo tempo per un generale interesse dei giovani verso le discipline più esotiche, e in un secondo tempo anche sulla scorta dei film di arti marziali - che ebbero negli anni settanta il periodo di maggiore popolarità.
Negli ultimi venti-trenta anni, invece, abbiamo assistito a tre tendenze principali:
  • la prima è un apprezzabile tentativo di alcuni maestri di riavvicinarsi agli stili antichi. Questo sforzo, ai giorni nostri, è enormemente facilitato da strumenti come internet e youtube
  • la seconda è il tentativo, da parte di altri maestri, di sincretizzare nel jujutsu elementi del karate, del judo e dell'aikido. Di fatto, alcune scuole attuali poco o nulla hanno a che vedere col jujutsu vero e proprio e sono una "somma" (un po' forzata e talvolta disarmonica) delle tecniche di queste arti marziali
  • la terza, e più perniciosa, è quella di concentrarsi su aspetti sportivo-agonistici, creando regolamenti di gara riconosciuti internazionalmente e che hanno anche portato all'organizzazione di campionati del mondo. Inutile dire che queste interpretazioni sportive, col jujutsu, non c'entrano proprio nulla.
Tre atleti di "sport jujutsu". Keikogi con strisce e patacche colorate, trofei, pose da pugili minacciose. Se non vi riesce di trovare il collegamento con l'immagine di sopra...è perchè non c'è. Lo "sport jujutsu" come molti derivati moderni, condivide con la tradizione marziale nipponica solo il nome, o poco più.


Riassumendo
Riassumendo, col tempo, il termine jujutsu non ha più un significato definito. Quanto ho scritto sopra non è che una enorme semplificazione della complessa e travagliata storia di questa disciplina, se ancora di disciplina si può parlare. Con una ulteriore semplificazione, potremmo fotografare la situazione attuale dividendo la pratica e le scuole di jujutsu in:
  • Koryu Jujutsu (jujutsu antico): ovvero le scuole che si attengono scrupolosamente alla tradizione e ne perpetuano fedelmente gli insegnamenti e i kata.
  • Gendai Jujutsu (jujutsu moderno): ovvero scuole fondate da maestri giapponesi, in patria o all'estero, che si fondano sulle scuole tradizionali ma presentano metodi di insegnamento più moderni, avendo eliminato alcune delle tecniche più arcaiche.
  • Goshin Jujutsu (jujutsu autodifesa): ovvero gli stili che riprendono i principi del jujutsu tradizionale, con cui hanno deboli legami di discendenza, focalizzandosi sull'autodifesa. Alcuni di questi metodi, a rigore, potrebbero cadere nel gruppo successivo, ma distinguo con questa etichetta quelle scuole la cui impronta è ancora riconoscibilmente nipponica.
  • Stili di Jujutsu "occidentale": ovvero tutte le scuole e gli stili che praticamente non hanno legami col jujutsu giapponese - e in taluni casi mai li hanno avuti. Ci sono letteralmente dozzine di approcci: dall'italico "Metodo Bianchi", al German Jujutsu, passando dal metodo Clarke a quelli del Nord Europa. Una certa popolarità la ha anche il "Brazilian Jujutsu", o metodo Gracie, che in realtà è più una variante del judo. Questo metodo è diventato popolare per essere stato adottato da alcuni alteti del mondo delle Mixed Martial Arts. In questo caso, come in altri, parlare di jujutsu è un po' difficile.
  • Sport jujutsu: ovvero la versione sportiva. C'è un certo consenso internazionale su due regolamenti di gara: il "duo games" e il "fighting system". Il primo non è che una sorta di messinscena di tecniche di autodifesa che vengono valutate a punti (tipo ginnastica artistica) - per quanto gli atleti siano spesso bravi e veloci, molte delle tecniche proposte sono ben distanti dai principi del jujutsu. Il secondo è una sorta di sistema ad incontri che è un mix fra il kumite del karate e un incontro di judo (sostanzialmente si procede come nel karate finche non viene stabilita una presa "solida", dopodichè l'incontro procede come nel judo). L'approccio potrebbe anche essere interessante sulla carta...ma di nuovo le tecniche e le strategie sono ben lontane da quello che possiamo chiamare jujutsu.
I primi due "gruppi" vanno talvolta sotto il nome di "Nihon jujutsu" - ovvero jujutsu giapponese propriamente detto. Per oggi mi fermo qua. Ma il discorso sarebbe assai più ampio.

martedì 1 giugno 2010

Lei non sa chi sono io!

Io sono Dino Cattaneo. Ho 36 anni e sono nato a Genova, dove vivo e lavoro.

Questo blog lo scrivo in primo luogo per me stesso. Lo scopo è quello di fare il punto, e trarre qualche conclusione, sul mio studio delle arti marziali giapponesi in generale, e del jujutsu in particolare, discipline di cui mi interesso da almeno venticinque anni.

Iniziamo dall'inzio....e quindi da un minimo di "autobiografia".
Cominciai a praticare il ju-jitsu "Metodo Bianchi" alle scuole elementari presso la palestra "Saetta Rossa" a Nervi, sotto la guida del Maestro Emilio Pagano che era anche il dottore di famiglia.
Sui pochi meriti e sui molti demeriti del "Metodo Bianchi" mi soffermerò altrove.
Dopo un anno o due, conquistata l'agognata cintura gialla, smisi di frequentare la palestra perchè si soleva finire la lezione con una serie di capriole che mi provocavano la nausea.
Come quasi ogni bambino italiano mi dedicai per un paio di anni al calcio nel San Pietro Quinto-Nervi... ma la mia proverbiale goffaggine con la palla e la mia introversione non ne fecero un esperienza felice.
Alle scuole medie, in prima o in seconda, decisi di tornare alla arti marziali...e la suddetta cintura gialla mi spinse a tornare alla Saetta Rossa, che frequentai assiduamente fino alla quarta Liceo.
Durante la quinta Liceo (1991) il Metodo Bianchi mi era venuto a noia. Conoscevo a menadito "i settori" e li eseguivo decentemente. Non riuscivo ad eseguire alcune tecniche come il maestro, ma non capivo il perchè...comunque non miglioravo e non imparavo cose nuove. Per inciso credo che molti praticanti e varie società ed associazioni iniziassero ad avvertire l'inadeguatezza del "Metodo Bianchi" e da più parti si proponevano metodi diversi di allenamento e di studio - a cui il Maestro Pagano si opponeva decisamente.
La "Saetta Rossa" quell'anno chiuse definitivamente la propria attività - se non ricordo male, il motivo fu che i proprietari dei locali non ne rinnovarno la disponibilità. Se non ho sbagliato i conti era il 1992.

Qualche tempo dopo,venni a sapere che Marco Penco e Luca Ferrari, due Cinture Nere della Saetta Rossa e tra i migliori allievi del maestro Pagano, avevano aperto una nuova palestra vicino a casa mia. Si trattava della associazione Shinden-Kai, che, inizialmente, si trovava presso la Palestra di Nervi.
Rimasi molto colpito dallo spirito di ricerca presente alla Shinden-Kai. Si spaziava dal aikido al karate, tendando di ripulire la pratica dai marchiani errori del Metodo Bianchi e dal suo goffo bagaglio tecnico.
Grazie a Luca e a Marco e al loro lavoro di ricerca, imparai molte cose e, credo, migliorai decisamente la mia tecnica. Presi anche la Cintura Nera con l'Associazione Italiana Ju-Jitsu (A.I.J.J.), peraltro grazie ad un esame-farsa che meriterebbe qualche riga e che ricordo ancora con un certo disgusto. Era, se non ricordo male il 1993 e quello fu l'unico esame "federale" che feci nella mia vita. Pur avendolo passato a pieni voti, ne ho un ricordo talmente negativo che da allora ho sempre disprezzato le federazioni di arti marziali, in maniera talvolta ingiusta e andando oltre i loro demeriti.

Fu, credo, il mio conseguimento della Cintura Nera a far decidere a Luca e Marco di eliminare le cinture "colorate" alla Shinden Kai ed cancellare di fatto gradi ed esami. Tutti con la cintura bianca...ed era giusto così.Quell'anno, per me, fu uno dei più duri e problematici - e non era per la questione cintura (che ci crediate o meno non volevo nemmeno indossarla, tanto squallido mi era sembrato l'esame), ma quanto per il fatto che fui invitato da Luca e Marco a farmi un esame di coscienza ed, eventualmente, allontarnarmi dalla Shinden Kai.
Mi si disse che che alcuni allievi si erano lamentati dell'eccessiva violenza delle mie tecniche, e si attribuiva alla mia presenza ed ai miei metodi il fatto che altri allievi si fossero ritirati dalla pratica. Inoltre mi si accusò di non essere socievole nei confronti degli altri allievi. Cose che, inutile dire, io non avevo minimamente sospettato prima. Mi vergognai come un cane, perchè ho sempre attribuito grande peso alle critiche e perchè comprendevo i motivi del giudizio negativo che veniva espresso nei miei confronti. Reagii come pensavo fosse meglio, ovvero impegnandomi per migliorare. Non so quanto e se i miei sforzi fossero stati apprezzati o meno, ma feci quello che potevo per togliermi l'etichetta di allievo violento ed asociale.

In quegli anni, Marco e Luca frequentavano anche la palestra di Roberto Amici e ne seguivano gli insegnamenti. Frequentai anche io, per circa due anni, la palestra di Roberto e ne fui molto colpito per la conoscenza di Karate ed Aikido, di cui praticava un interessante metodo sincretico piuttosto efficace. Tuttavia ero in forte disaccordo con gli aspetti più esoterici del suo metodo, che sfociava spesso nell'ambito religioso - ai confini del settarismo. Per non parlare poi di intere lezioni, a mio avviso assurde, sulla percezione del ki e dell'energia - ricordo ad esempio un'intera sessione di kumite "bendati" che varcò i confini nel ridicolo.

Frequentai la Shinden-kai praticamente fino alla sua dissoluzione ovvero quando Luca e Marco presero strade separate, per motivi che non conosco - che avvenne, se non ricodo male, poco prima che mi laureassi, ovvero nel 1999.

Dopo la laurea ed il militare, nel 2001, mi spostai a Torino per lavoro. Onestamente non avevo più voglia di frequentare una palestra, tanto più che mi era chiaro che certi situazioni negative (direi quasi psicopatologiche), sebbene presenti bene o male in ogni associazione sportiva, nei club di arti marziali arrivano spesso a livelli veramente perniciosi e, per me, insopportabili. Frequentai alcuni stage di arti marziali ma principalmente mi dedicai allo studio dei kata del karate, con qualche iniezione di Shaolin ed arti cinesi che vedevo praticare durante i miei viaggi lavorativi in Cina.

Nel 2006 tornai a Genova... dove le cose non cambiarono. Mi bastò frequentare qualche stage e vedere qualche dimostrazione per accorgermi che la vita da palestra non faceva più per me e continuai la mia pratica di studioso autodidatta...attività che in teoria continuo tutt'ora, ma per cui ho sempre meno tempo.

Spero che questo blog, oltre che ad essere d'aiuto a me per organizzare le mie conoscienze, possa essere uno spunto di riflessione anche per chi pratica le arti marziali o ne è interessato.